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Luigi Lineri,
tra avventura e ritrovamento, tra immedesimazione e scoperta
Già in altre occasioni, intervenendo sul lavoro di ricerca di Luigi Lineri,
paradossalmente pronosticavo che i molti anni consumati sui greti dell’Adige in
magra a raccogliere pietre e sassi fossero decisivi per l’espressività di una
sequenza plastica di straordinaria incisività formale e poetica. Ciò dunque a
discapito di una teoria significante sulla tematica scientifica che i reperti
non siano “oggetti trovati” ma opere di lontanissimi e primordiali abitanti
della pianura e delle acque che sono Zevio e i suoi dintorni
Infatti una così esorbitante, e perfino colossale, operazione d’immaginario è
talmente in linea con la poetica del “moderno” che non abbisogna certamente
della conferma degli addetti ai lavori delle scienze naturalistiche, anzi, come
accennato, la conferma, per fortuna lontana a venire, della scienza, per me
priva il personaggio Lineri, il poeta Lineri, di una magnetica carica di
fascinazione che mai il “ritrovamento” scientifico potrebbe poi ridargli contro
l’aureo ed eroico, invece, consono all’avventura dell’arte.
Ulisse, Prometeo, Icaro, sono alcuni riferimenti mitici determinanti della
cultura moderna. E il viaggio fantastico di Lineri dentro le pietraie
dell’Adige, il suo voler recuperare, o “rubare”, forme-immagini al fiume e al
tempo, il volo immaginario e immaginifico dentro l’abissale mistero del
passato-presente (l’arcaico ipotizzato, la realtà fisica dei reperti…), non
faticano a combaciare, ancora una volta, la storia memorabile nella quotidiana
enfasi solitaria di trovare sé e la vita con la caparbia tensione di una
concezione nuova del museo, che è raccolta di fatti ciclici e di invenzioni, ma
partecipanti fino al punto di ridar loro aliti e lieviti vicini alle stagioni,
alle ore dell’individuale e dell’umano. Mi si obietterà che è facile fare
l’avvocato del diavolo, e che in tal modo si perde a priori la sfida con
l’arcaico; mentre, piuttosto, io, da poeta a poeta, mi adopero per “innalzare”
Lineri fino alla linea più simbolica e incisiva della scultura moderna, magari a
ruota di Brancusi, Moore, Barbara Hepworth, Arturo martini, o, per un caso più
vicino anche geograficamente, al “veneziano” Viani.
Non , dunque, un cedimento: ma una puntualizzazione quasi feroce, e altrettanto
caparbia di quella che sottintende al “mondo” monumentale e articolato di Lineri
nella sua immensa biblioteca di pietra, e con le pietre che sono attrezzi,
animali, organi; cioè vitale esperienza espressiva, allusiva e, finalmente dei
gesti precisi e ineliminabili di provocazione poetica, di sillabazione poetica.
Venendo alla mostra, si osservi come la sua didascalica sequenza “scientifica”,
sia altresì convintamene una indagine di metodo, una astorica e pregnante
comunicazione processuale: sul linguaggio e del linguaggio espressivo. Infatti
Lineri mette in primis la “chiave”, cioè una forma ad ascia, a lama, però
polisignificante, quindi con delle aperture, quasi ad angolo giro, all’interno
della tensione che immedesima lo svolgersi fisico e dialettico delle immagini,
delle forme, dei significati, della loro pienezza espressiva e fisica.
Accade che la “chiave” nel suo evolversi assuma l’aspetto, o che lo suggerisca,
del muso animale del cane e della pecora, che, fuor di metafora, sono anche
l’abicì del primordio espressivo infantile, quindi anche nell’immaginario il
primordio espressivo del primordio. Ma la sequenza continua la sua danza, e il
movimento scatta nel muso che si volge all’insù, in cerca dell’aria e del cielo,
o meglio ancora, dello spazio, dell’ignoto; ancora Icaro e Ulisse? Di colpo il
muso di animale terrestre muta nelle sembianze possibili all’uccello, alla sua
testa sottile che beve l’aria, e, quasi di concerto, o insieme, anche a quelle
del simbolo fallico, che sono la vita, la continuità: o, non ancora, quelle di
Prometeo che ruba il fuoco agli dei, cioè la vita, la nascita, il calore?
Di “chiave” in “chiave”, vengono poi oggetti, sassi, pietre levigate, ancora
ambivalenti, e sono tutti i musi possibili nel moto su e giù, basso e alto, pur
in una lettura ferina, anche pericolosa: sì il cane, ma altresì la volpe e il
lupo…
Il discorso di Lineri corre, e si rincorre, come un racconto lirico, come un
seguito di scoperte che sono sempre, in ogni caso, di linguaggio espressivo e di
filmica narrativa, in un moto però non rettilineo, e ciclico: come è l’uomo da
sempre.
Se la tensione si acqueta e rientra nello spazio consueto, nel conosciuto,
nell’alveo, l’immagine diventa ricorrenza, consuetudine, motivo accarezzato e
accarezzabile, motivo-movente morbido e intimo: il muso di pecora con tutte le
sue implicazioni tattili, d’uso, di calda intimità.
Poi avviene un altro salto, e il processo linguistico dall’inconscio entra nel
conscio, perché dal somatismo, dalla copia, dalla mimesi, si entra
nell’invenzione, nella struttura della sintesi geometrica. La conoscenza non è
meramente simbolica, tenendo conto che c’è anche la scoperta, ipotizzabile, di
altri animali più rari come, ad esempio, i cervi.
Lineri opera, a questo punto, una deviazione creativa, e scopre un’ulteriore
fuga in avanti, nei tentativi, difficili, di raffigurare animali come l’alce, il
bisonte, o la più consueta capra: che hanno la novità della barba, del ciuffo
sottostante, così alieni dal voler diventare pietra, blocco chiuso.
L’evento raffigurativo, o i processi naturali del vento e delle acque, sono
molteplici, e in divenire man mano che il linguaggio metodologico dà loro
un’identità, una provenienza, un fine, una memoria. Vengono fuori degli animali
sintetizzati in forme a X; delle immagini riferibili agli equini, così vicini e
lontani insieme per velocità e mansuetudine, o intelligenza.
Infine, dopo l’animale terrestre, dopo i padroni del cielo e cioè i volatili,
ecco ora i pesci, che ripetono in contemporanea una riedizione dell’ipotesi
fallica, però oltrepassando la semplice mimesi con una difficile operazione che
vuole identificare, come prima la barba sporgente, l’occhio alto: così sfuggente
all’espressione e al suo “disegno”.
Il nuoto nel liquido; il fallo; l’occhio; tre ipotesi diversissime che
significano, potrebbe dirci Lineri, un’ulteriore identificazione con altri
elementi naturali e insieme espressivi, anche come vera e propria indagine
figurativa all’interno dell’acqua che inquieta e diversifica qualsiasi sembianza
e forma.
Per concludere, ma solo come punto teorico di supposta ambientazione espositiva
e non invece come identificazione esplicativa dell’immensità delle proposte
dello “scultore” o dell’entomologo delle pietre Lineri, ecco ora le forme
precedenti ma “cotte”, cioè riassumibili nella stagione dei metalli: come
conferma, dice Lineri, del metodo e della sua scientificità, e altresì di
liberazione, dico io, nel senso di arrivare alla forma-immagine con la povertà
sofisticata di altri materiali di natura, meno naturali perché sottoposti
dall’uomo a un travaglio evidente e d’uso.
La scoperta delle fisicità, della superficie, del peso, di maggiori aspetti
cellulari inediti, di vita dentro la vita e l’accadere anche eclatante il
fuoco), riportandoci lievemente a Prometeo, depone Lineri in una sfera di
modernità ormai acquisita alla temperie espressiva contemporanea del materiale
significante o autosignificante, come appello non più alle forme ma alla loro
vitalità interiore e mai doma.
A questo punto l’opzione della poesia e dell’arte, può fascinare con la mostra
una componente fondamentale del lavoro di Lineri, quanto però immiserire
l’audace suo proposito di aver memorizzato il passato, ma il mio compito era
questo, pur con tutti i dubbi che mi restano sull’autentico elaborato, e non
casuale, delle forme e delle immagini. Non voglio invadere campi, per me minati,
come quelli scientifici a cui le ipotesi alternative sono legate. Lineri, in
ogni caso, esiste, e ho convinzione che non si tratti solo di un “caso”, o di un
incidente bello ma fortuito. Dunque avventura o indagine? Poesia o scoperta?
Eccole sempre e insieme come realtà umane, notizie umane, e difficilmente
scindibili, difficilmente messe in fila come in una gara sportiva, soprattutto
in considerazione dell’epopea che rappresentano in qualsiasi delle evenienze,
possibili o impossibili, a cui aspirano.
ALESSANDRO MOZZAMBANI
(In occasione della mostra “Civiltà della pietra nel greto del fiume Adige a
Zevio?”, Aprile 1985)
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