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Le pietre dei fiumi e il loro passato: la collezzione di Luigi
Lineri
Gli artisti marginali sono di norma pittori, scultori, disegnatori, costruttori
di pupazzi o giocattoli. Privilegiano cioè la creazione manuale.
Anche Luigi Lineri dipinge e scolpisce, ma solo ogni tanto. Queste due attività
sono comunque subordinate al suo principale operato consistente nel raccogliere,
interpretare e catalogare le pietre che quotidianamente va a cercare nell’Adige.
Volendo giocare con terminologie non pertinenti al mondo degli outsiders,
potremmo definirlo un concettuale-marginale. Concettuale perché il suo atto
artistico, concentrato su uno sforzo puramente intellettuale, è un’operazione di
attribuzione di senso a oggetti trovati, è un’interrogazione sulle possibilità
linguistiche di oggetti solitamente considerati non comunicanti.
Marginale perché egli lavora fuori dagli schemi consolidati dell’arte e
dell’archeologia.
Lineri nasce nel 1937 a Ronco all’Adige.Attualmente vive con la moglie a Zevio.
La sua ricerca inizia negli anni ’60, a partire da alcune gite fatte con un
amico interessato a trovare punte di frecce di selce. Lui preferiva osservare le
pietre e, con gradualità, si addentra in un linguaggio sconosciuto che gli si
rivela improvvisamente con la scoperta del primo sasso significante, la testa
della pecora. Nel ’70, con la nascita della prima figlia, abbandona l’Adige per
un po’. Ma subito dopo si organizza per avere più tempo a disposizione.
La sua opera si presenta in una serie incalcolabile di pannelli appesi con
ordine al muro o impilati per terra. Su ognuno sono incollate da due a ottanta
pietre della stessa forma e grandezza. I pannelli occupano i due piani di un
edificio adiacente all’abitazione. In cortile quintali di sassi sono accatastati
lungo il muro di cinta.
La sua spiegazione è indispensabile per una corretta comprensione. Secondo lui,
le pietre sono frutto di un intervento umano. Non è possibile che la ripetizione
delle forme sia casuale.Come si trovano nell’Adige si trovano in tutti gli altri
fiumi.
I soggetti che fino ad ora ha scoperto, analizzato e sistemato sono: le teste di
animali come la pecora, il pesce, il maiale, il cane, l’equide, il bovide, i
simboli maschile e femminile, le grandi madri, ovvero silhouette acefale e
gravide, infine la testa umana.
Ci sono caratteristiche generali che riguardano qualità e quantità. La pecora è
il gruppo dominante ed è quella realizzata con più accuratezza. Il maiale, al
contrario, è spesso mal riuscito. Il volto umano non è molto frequente.
Ci sono poi i percussori e i levigatori che sono ciottoli-strumento, usati dagli
antenati, per fare le sculture tramite lo sfregamento con acqua e sabbia.
Le teste si mostrano sempre di profilo. Oltre a quelle sopraelencate ce ne sono
altre derivate dalla fusione di due o più soggetti: falli-musi, musi-becchi,
falli-vagine, percussori-sculture. La testa di pecora si confonde con quella del
pesce perché mostra contemporaneamente l’atto del belare e quello del
boccheggiare. Il volto umano si cela dietro a quello degli animali.
Si va da una certa somiglianza formale ad un massimo di indeterminatezza. Ed è
proprio questo che affascina di più Lineri. Secondo lui, l’uomo preistorico
creava queste forme indifferenziate perché si prestano a molteplici letture. Più
riuscivano a sintetizzare, ad astrarre, a cogliere l’essenza di un soggetto e
più si avvicinavano all’arte con la A maiuscola. Lui chiama questo figurativismo
minimale “il mascherare” e dice: “Io sto vedendo il volto in una forma così
neutra, bella, stupenda. La maschera è così riuscita che solo uno che è dentro
il linguaggio come me riesce a capire”.
La scoperta dei volti, dei musi, che si celano in ogni pietra è affidata ad una
speciale arte del vedere. Bisogna osservare la pietra sotto un fascio di luce
radente e muoverla per captare le immagini, attraverso la mutevolezza delle
ombre che si creano sulla sua superficie. Vedremo allora, per esempio, una
testa-becco incastonata in una pecora, a loro volta contenute in una grande
madre. Oppure, capovolgendo la pietra, si può guardare ora un naso, ora una
barba, ovvero un viso umano mascherato da animale caprino.
Nel suo lavoro di decifrazione si aiuta moltissimo con i giochi di parole e con
il dialetto. Lo hanno colpito i doppi sensi delle parole “uccello” e “maiale” e
alcune esclamazioni come “porco cane”.
Lineri, immerso nel liquido amniotico della provincia veronese, è rimasto
inascoltato per tutti questi anni, ma non si è disperato. Anzi, “il fatto che
nessuno mi abbia creduto, che nessuno mi abbia dato una mano è servito perché
approfondissi”.
Si è autofinanziato un paio di mostre e il volume “Adige, un fiume di memorie”
in cui ci sono foto accompagnate da poesie esplicative. La sua perseveranza,
materializzata nella quantità impressionante delle pietre, è ciò che disturba
maggiormente l’osservatore scettico.
Lineri non si è certo fermato alla lettura dei soggetti ma ha proseguito verso i
perché della loro esistenza. Secondo lui le pietre servivano alle popolazioni
per attraversare il fiume con le mandrie. Venivano perciò adorate e plasmate,
fatte protagoniste di rituali e atti magici. Erano doni all’acqua, alle case, ai
campi. Tutti ne avevano e si trovavano ovunque.
Essendo il frutto di una cultura orale, la loro ripetitività si collegava ai
ritmi incessanti e progressivi dei canti sciamanici e delle litanie cristiane. I
riti pagani a cui si legavano sono trapassati anche nella tradizione cattolica e
quindi possono essere considerate anche degli ex-voto.
A Lineri non interessa il metodo archeologico scientifico. Il suo è un fare
teorico-artistico basato su un sincretismo in cui tutto il suo sapere si
incrocia con tutte le sue facoltà visionarie e immaginative. Egli spazia, senza
difficoltà, dalla lettura di Jung e di McLuhan alle sue personali deduzioni
sulle credenze e sulle preghiere di tutti i tempi, passando per la riflessione
sulla parola dialettale.
Lineri indaga, tramite le sue fulminanti intuizioni, nei meccanismi del gioco,
che tutti abbiamo fatto almeno una volta, di scoprire sagome antropomorfe in
oggetti inanimati. Un gioco entrato peraltro a far parte molto spesso dell’arte
e della scienza. Ricordo la definizione “manufatti-occhiofatti” coniata da
Raggianti per le pitture rupestri, le teorie delle macchie di Leonardo, il test
di Rorschach.
Ad ogni modo, anche a prescindere dalla sua suggestiva teoria, resta
indubitabilmente la testimonianza della sua lunga ricerca solitaria
concretizzatasi nella sua fascinosa collezione-raccolta, ricca di echi
ancestrali.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
- E.Anati, Origini dell’arte e della concettualità, Milano, Jaca Book, 1988
- P.K.Feyerabend, Contro il metodo. Abbozzo di una teoria anarchica della
conoscenza, Milano, Feltrinelli, 1979
- E.Kris, O.Kurz, La leggenda dell’artista, Torino, Boringhieri, 1980
- L.Lineri, Adige un fiume di memorie, Verona, Perosini, 1993
- C.L.Raggianti, L’uomo cosciente. Arte e conoscenza nella paleostoria, Bologna,
Calderoni, 1981
ELISABETTA PESCUCCI, L’Arte Naive, Anno XXV, Giugno 1998, Reggio Emilia
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